Se si dovesse fare una sceneggiatura sulla democrazia, l'attore principale sarebbe di certo la partecipazione. Una partecipazione rivendicata, ottenuta e infine ricercata. Rivendicata all'inizio, quando la cosa pubblica sta in mano a pochi ed è gestita come un bene privato nel nome di diritti divini o di consuetudine, poi ottenuta al prezzo di grandi o grandissimi sacrifici. Infine, con il tempo e l'abitudine, la partecipazione è qualcosa di disperatamente ricercato da un numero via via ridotto di persone proprio quando ottiene i suoi principali obiettivi: libertà, diritti e benessere.
Pensiamo, per restringere il campo e magari banalizzare la questione, alla nostra Italia degli ultimi sessant'anni. Dopo gli anni cupi del fascismo, dove non si ricercava la partecipazione delle masse ma l'adesione incondizionata, un movimento di popolo e di teste ha lottato e sofferto per giungere a delle elezioni libere, al suffragio universale e alla libertà. Le prime elezioni hanno avuto un altissimo tasso di affluenza alle urne: il referendum tra monarchia e repubblica ha mobilitato la penisola in lungo e in largo. Bisogna però stare attenti: partecipazione non significa che automaticamente si affermi quello che si ritiene stia più a cuore ai ceti popolari, storicamente più numerosi. Il referendum Monarchia-Repubblica ne è un esempio: la Repubblica si affermò, se pensiamo a quello di cui si era macchiata la corona sabauda negli anni precedenti, di strettissima misura. Ma è proprio qui che sta la scommessa e il coraggio di voler partecipare: il risultato è determinato da chi partecipa e non è mai predeterminato.
Partecipare, poi, non significa solo recarsi alle urne, ma anche e soprattutto avere a cuore quotidianamente il collettivo, rendendosi consapevoli che l'uomo è animale sociale e che il suo destino dipende in misura minore o maggiore dalle azioni e dai pensieri di tutti gli altri. Partecipare, poi, è l'arte più difficile: fatta di fatica, costanza, a tratti senso di inutilità...
Il partecipare politico è chiaramente lo strumento più diretto e chiaro perché comprende o influenza le varie altre forme di partecipazione (sociale, ricreativa, culturale finanche lavorativa o sportiva). La partecipazione politica, infine, comprende anche quell'aspetto formativo (a volte alfabetizzante) rispetto a vari campi dell'esistenza.
Oggi, la partecipazione politica è evidentemente in crisi: perché? E soprattutto: è un bene?
La crisi della partecipazione politica affonda le radici in una ampia varietà di ragioni, che in un breve articolo non è possibile affrontare. Per citarne una, il sopraggiungere di un benessere materiale sufficientemente diffuso da investire almeno più della metà dei cittadini (frutto proprio della partecipazione) ha sopito quei sentimenti di appartenenza e rivendicazione che giocoforza rappresentavano la scintilla per, ad esempio, uscire la sera di casa per andare a discutere qualcosa con altre persone... E' chiaro che la scintilla scatta sempre per questioni come possono essere l'ambiente, le ingiustizie, l'incompetenza di rappresentanti istituzionali... Però mancano una costanza ed un obiettivo comuni.
Un altro motivo di crisi della partecipazione politica è sicuramente la struttura della società: una società sempre più mobile, veloce e in cui i contatti sono continui. Una società che vede al proprio centro il consumismo mordi e fuggi in tutti i campi, anche quelli della cultura e del lavoro. Una società, quella cosiddetta occidentale, che ha sviluppato pregi enormi (alfabetizzazione, sanità, livello medio di vita, opportunità, libertà, diritti civili, internazionalizzazione...), ma che ha anche messo a nudo i suoi limiti (qui messi in fila generalizzando un po'): incostanza culturale, settorializzazione e frammentazione degli interessi e degli stili di vita, crisi della solidarietà intragenerazionale ed intergenerazionale, mancanza di fini comuni, sfruttamento del lavoro soprattutto giovanile, ritmi di vita frenetici, sensazione di vuoto davanti all'enormità delle informazioni e delle possibilità (che poi si può tradurre in vere e proprie sindromi), corsa al profitto, guerra dei poveri contro i più poveri...
Avevamo detto: la partecipazione politica è in crisi, è un bene questo? Sicuramente no. Il problema di fondo è che più alto è il tasso di partecipazione quotidiana e agli appuntamenti elettorali, più ciascuno determina le scelte per se stesso e per gli altri. Insomma, vale il vecchio detto, che “la politica è l'unica cosa che, anche se non ti occupi di lei, lei si occupa di te”. Politica non vuol dire partito. Fa politica anche un comico che parla male della politica, fa politica anche un volontario o un missionario... Però è evidente come un partito abbia un ruolo fondamentale nella partecipazione politica: la tutela, la pratica, la organizza (quindi la fa pesare di più), la valorizza. Oggi non è più possibile pensare all'applicazione dei vecchi schemi dei grandi partiti di massa del novecento, Partito Comunista Italiano e Democrazia Cristiana in particolare, che pure in Italia hanno avuto un ruolo fondamentale nello sviluppare, detto in due parole, il senso di cittadinanza italiano.
Oggi dobbiamo pensare a qualcosa di diverso. Per andare al concreto, ci vuole un partito che sappia adattarsi alla società contemporanea, quindi sia flessibile agli interessi e alle possibilità dei propri aderenti, ma anche che sappia indirizzarla la società.
Credo che la politica sia inevitabilmente lo specchio della comunità che rappresenta: purtroppo chi va in parlamento, ad esempio, è eletto da tutti quanti. Quindi, penso che per rinnovare la politica bisogna mettersi in gioco tutti. A cominciare da se stessi. Dalla propria voglia di cambiare e di partecipare. E non basti mandare a quel paese i vari farabutti di turno, anche se questo può essere in certi momenti un passaggio fondamentale.
Il 14 ottobre nasce un partito nuovo, il Partito Democratico. Non sarà la panacea a tutti i mali, ma è un'opportunità. Solo se un partito (e la sua classe dirigente) sa mettersi in discussione periodicamente, può dare un contributo non solo alla sua parte ma anche al Paese. E il 14 ottobre questo partito nasce mettendosi in discussione. Penso sia un'opportunità grande per avere un partito che non candidi pregiudicati, che si doti di un codice etico, che sappia dialogare costantemente con la società civile, che sappia governare e lottare, che sappia ascoltare e dire, che sappia, soprattutto, dire quello che fa e fare quello che dice. Dipende anche da noi. Proviamoci.
Pensiamo, per restringere il campo e magari banalizzare la questione, alla nostra Italia degli ultimi sessant'anni. Dopo gli anni cupi del fascismo, dove non si ricercava la partecipazione delle masse ma l'adesione incondizionata, un movimento di popolo e di teste ha lottato e sofferto per giungere a delle elezioni libere, al suffragio universale e alla libertà. Le prime elezioni hanno avuto un altissimo tasso di affluenza alle urne: il referendum tra monarchia e repubblica ha mobilitato la penisola in lungo e in largo. Bisogna però stare attenti: partecipazione non significa che automaticamente si affermi quello che si ritiene stia più a cuore ai ceti popolari, storicamente più numerosi. Il referendum Monarchia-Repubblica ne è un esempio: la Repubblica si affermò, se pensiamo a quello di cui si era macchiata la corona sabauda negli anni precedenti, di strettissima misura. Ma è proprio qui che sta la scommessa e il coraggio di voler partecipare: il risultato è determinato da chi partecipa e non è mai predeterminato.
Partecipare, poi, non significa solo recarsi alle urne, ma anche e soprattutto avere a cuore quotidianamente il collettivo, rendendosi consapevoli che l'uomo è animale sociale e che il suo destino dipende in misura minore o maggiore dalle azioni e dai pensieri di tutti gli altri. Partecipare, poi, è l'arte più difficile: fatta di fatica, costanza, a tratti senso di inutilità...
Il partecipare politico è chiaramente lo strumento più diretto e chiaro perché comprende o influenza le varie altre forme di partecipazione (sociale, ricreativa, culturale finanche lavorativa o sportiva). La partecipazione politica, infine, comprende anche quell'aspetto formativo (a volte alfabetizzante) rispetto a vari campi dell'esistenza.
Oggi, la partecipazione politica è evidentemente in crisi: perché? E soprattutto: è un bene?
La crisi della partecipazione politica affonda le radici in una ampia varietà di ragioni, che in un breve articolo non è possibile affrontare. Per citarne una, il sopraggiungere di un benessere materiale sufficientemente diffuso da investire almeno più della metà dei cittadini (frutto proprio della partecipazione) ha sopito quei sentimenti di appartenenza e rivendicazione che giocoforza rappresentavano la scintilla per, ad esempio, uscire la sera di casa per andare a discutere qualcosa con altre persone... E' chiaro che la scintilla scatta sempre per questioni come possono essere l'ambiente, le ingiustizie, l'incompetenza di rappresentanti istituzionali... Però mancano una costanza ed un obiettivo comuni.
Un altro motivo di crisi della partecipazione politica è sicuramente la struttura della società: una società sempre più mobile, veloce e in cui i contatti sono continui. Una società che vede al proprio centro il consumismo mordi e fuggi in tutti i campi, anche quelli della cultura e del lavoro. Una società, quella cosiddetta occidentale, che ha sviluppato pregi enormi (alfabetizzazione, sanità, livello medio di vita, opportunità, libertà, diritti civili, internazionalizzazione...), ma che ha anche messo a nudo i suoi limiti (qui messi in fila generalizzando un po'): incostanza culturale, settorializzazione e frammentazione degli interessi e degli stili di vita, crisi della solidarietà intragenerazionale ed intergenerazionale, mancanza di fini comuni, sfruttamento del lavoro soprattutto giovanile, ritmi di vita frenetici, sensazione di vuoto davanti all'enormità delle informazioni e delle possibilità (che poi si può tradurre in vere e proprie sindromi), corsa al profitto, guerra dei poveri contro i più poveri...
Avevamo detto: la partecipazione politica è in crisi, è un bene questo? Sicuramente no. Il problema di fondo è che più alto è il tasso di partecipazione quotidiana e agli appuntamenti elettorali, più ciascuno determina le scelte per se stesso e per gli altri. Insomma, vale il vecchio detto, che “la politica è l'unica cosa che, anche se non ti occupi di lei, lei si occupa di te”. Politica non vuol dire partito. Fa politica anche un comico che parla male della politica, fa politica anche un volontario o un missionario... Però è evidente come un partito abbia un ruolo fondamentale nella partecipazione politica: la tutela, la pratica, la organizza (quindi la fa pesare di più), la valorizza. Oggi non è più possibile pensare all'applicazione dei vecchi schemi dei grandi partiti di massa del novecento, Partito Comunista Italiano e Democrazia Cristiana in particolare, che pure in Italia hanno avuto un ruolo fondamentale nello sviluppare, detto in due parole, il senso di cittadinanza italiano.
Oggi dobbiamo pensare a qualcosa di diverso. Per andare al concreto, ci vuole un partito che sappia adattarsi alla società contemporanea, quindi sia flessibile agli interessi e alle possibilità dei propri aderenti, ma anche che sappia indirizzarla la società.
Credo che la politica sia inevitabilmente lo specchio della comunità che rappresenta: purtroppo chi va in parlamento, ad esempio, è eletto da tutti quanti. Quindi, penso che per rinnovare la politica bisogna mettersi in gioco tutti. A cominciare da se stessi. Dalla propria voglia di cambiare e di partecipare. E non basti mandare a quel paese i vari farabutti di turno, anche se questo può essere in certi momenti un passaggio fondamentale.
Il 14 ottobre nasce un partito nuovo, il Partito Democratico. Non sarà la panacea a tutti i mali, ma è un'opportunità. Solo se un partito (e la sua classe dirigente) sa mettersi in discussione periodicamente, può dare un contributo non solo alla sua parte ma anche al Paese. E il 14 ottobre questo partito nasce mettendosi in discussione. Penso sia un'opportunità grande per avere un partito che non candidi pregiudicati, che si doti di un codice etico, che sappia dialogare costantemente con la società civile, che sappia governare e lottare, che sappia ascoltare e dire, che sappia, soprattutto, dire quello che fa e fare quello che dice. Dipende anche da noi. Proviamoci.
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