giovedì 13 marzo 2008

Leggete...

Suicida per l'assunzione mancata in un'azienda del gruppo
Non rinnovato il contratto interinale.
Lascia la moglie e due figli

TORINO - Dicono che Luigi Roca avesse la faccia di chi per anni ha assorbito la tristezza, giorno dopo giorno, fino a disegnarsela sul volto, tra i lineamenti, come una ruga. Dicono anche che due settimane fa quella faccia invece e stranamente sorridesse: "Stavolta ho trovato il lavoro giusto, mi assumeranno, durerà". L'aveva detto al suo amico Vito, vicino di casa e sindacalista. Erano al parco giochi di Rocca Canavese, c'erano anche i bambini.
Invece Luigi si è ucciso, perché era tutta un'illusione e la tristezza era ormai dentro la sua storia, non solo sul suo viso. "Mi ammazzo perché insieme al lavoro ho perso la dignità". L'"ottava vittima" della Thyssen, 39 anni, non ha mai lavorato nella fabbrica della morte. Ma la sua azienda, la Berco di Busano Canavese, faceva parte del gruppo tedesco. E il suo contratto, interinale, non è stato rinnovato perché la Thyssen adesso ha 150 persone "da collocare", come si dice terribilmente in questi casi. Come se le persone fossero i pezzi di un incastro.
Però Luigi era diventato il pezzo stagliato: di troppo, e già troppo vecchio. Trentanove anni, un'età da matusalemme se cerchi il posto fisso. Ma ci aveva creduto. Dopo quattro anni di rimbalzi, un mese, due mesi in fabbrica e poi a casa, era arrivato un impiego giusto, più solido. "Durerà". Lui, che non aveva un carattere facile, stavolta andava d'accordo con i colleghi e i superiori, non come quell'altra volta alla "Canavera e Audi", stampaggi industriali: lì, dopo quindici anni se n'era andato per colpa di un brutto screzio con un capo. Perché Luigi aveva dentro una storia difficile e un'adolescenza inquieta. Ne era uscito meglio di suo fratello, che è in carcere. Aveva trovato una donna, Barbara, con la quale stava da dodici anni, si erano sposati ed erano nati Niccolò e Davide, 6 e 7 anni.
Barbara Agostino, che fa le pulizie in un'azienda di stampaggio e adesso dice tra le lacrime: "Mio marito si è ucciso perché si sentiva umiliato. Chissà cosa deve avere provato, dentro, per decidere di farla finita. Se quell'azienda gli avesse rinnovato il contratto, ora non sarei una vedova con due figli piccoli da allevare".
Quindici anni in fabbrica, poi quattro a spasso, a chiedere e non ottenere mai. La paura di non rientrare più. Ma anche la forza di provarci ogni volta di nuovo, con le sue mani. Quelle che Luigi aveva usato per ristrutturare la porzione di vecchia cascina trasformata nella loro casa, in campagna, frazione Vallossino di Rocca Canavese. Aveva fatto il mutuo, per riuscirci, e finalmente era sicuro di poterlo pagare. L'aveva rivelato all'amico sindacalista, quel giorno al parco. Due settimane fa. La faccia non più triste sarebbe durata solo sette giorni, fino a quando gli hanno detto che non sarebbe stato confermato.
Lì è cominciato il crollo, silenzioso ma evidente. Nessun segno che facesse presagire l'epilogo, solo il ritorno della faccia di prima. L'avevano vista tutti. Non era bastato a capire. Luigi Roca non era mai stato nella fabbrica del rogo, laggiù a Torino, in corso Regina Margherita. Ma è come se ci fosse stato anche lui, la sera del 6 dicembre, quando gli altri 7 vennero sommersi. Perché la precarietà del lavoro è un domino che abbatte quasi tutte le tessere che incontra, o almeno le più fragili, quelle meno in equilibrio ai bordi del tavolo. Lì stava Luigi da quattro anni, con i suoi 39 già addosso e la paura di non uscire mai più dal precariato. Per assurdo, la mazzata finale è giunta proprio dall'illusione di esserne fuori. "Era contento, fiducioso" dice Vito Bianchino, il sindacalista Cisl. "Luigi dedicava tutto se stesso alla moglie e ai figli. E un'azienda non può lasciare a casa a cuor leggero certe persone, le caratteristiche del lavoratore contano".
Buona salute, gran voglia di faticare, ottime motivazioni. Questo era il suo profilo. Incoraggiante. Si era tranquillizzato, aveva capito che anche di fronte alle possibili ingiustizie bisogna restare calmi e ragionare, senza reagire sempre d'istinto. Un percorso lungo e duro, che però Luigi aveva conquistato sulla sua pelle, cicatrici e dimissioni comprese. Era stato sul fondo e aveva cominciato a risalire. Fino a quando non l'hanno convocato in un ufficio per dirgli che no, arrivederci e grazie.
Così lui ha scelto l'albero in un bosco vicino a casa, ha preso la corda ma prima la carta e la penna.
Tre lettere.
Ai genitori ha chiesto perdono.
Alla moglie Barbara ha scritto: "In questo tipo di vita serve una forza che io non ho. Non lo dico per giustificarmi, ma perché tutti possiate perdonarmi. Ho valutato le conseguenze del mio gesto ma non ce la faccio, ho perso lavoro e dignità".
L'ultima lettera, per i due figli piccoli. "Non mi giudicate e comportatevi bene. Trattate bene la mamma e conservate di me la parte buona che vi ho lasciato".

3 commenti:

Anonimo ha detto...

certo l'ingiustizia e palpabile, lo sconforto anche... ma mi chiedo perchè abbandonare due figli?
atti incomprensibili per una "dignità"....

Anonimo ha detto...

A volte ci sono cose imponderabili... E ingiudicabili...

Anonimo ha detto...

Ognuno può avere dentro delle emozioni che non riesce a condividere con nessuno... e a volte queste emozioni, positive o negative che siano, esplodono,e portano a gesti incomprensibili... ma per chi li compie un senso ce l'hanno comunque... si può non condividerli ma il gesto resta, e pesa soprattutto sulle persone vicine a chi lo compie...
XXX